IL TRIBUNALE ORDINARIO Nella persona del Giudice dott. Andrea Antonio Salemme, all'esito della Camera di consiglio di cui all'odierna udienza, ha pubblicato mediante lettura la seguente ordinanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale nel procedimento penale n. 430/09 R.G.N. R. a carico di E. P. Si procede nei confornti del P. per il delitto di maltrattamenti in famiglia dal medesimo commesso, secondo la prospettazione accusatoria, ai danni della convivente D.C. Quest'ultima, escussa come teste all'udienza del 22 settembre 2009, ha integralmente ritrattato tutte le accuse mosse al P. dinanzi alle Forze dell'ordine, che, in plurime riprese, la assunsero a sommarie informazioni. Stando alla versione dalla medesima riferita in dibattimento, i racconti fatti agli operanti della Polizia di Stato di Biella il 28 aprile 2007 ed il 13 agosto 2007, agli operanti dell'aliquota di Polizia giudiziaria dei Carabinieri di Biella il 3 marzo 2008 ed agli operanti della stazione dei Carabinieri di San Cristoforo a Milano il 25 giugno 2008 sono integralmente falsi, poiche' l'imputato non l'avrebbe mai picchiata ne' tantomeno maltrattata. A domanda sia del Giudice che del pubblico ministero, volta a comprendere se ella avesse paura dell'imputato o di altra persona per eventuali conseguenze nefaste della sua deposizione, tanto ha espressamente escluso. Contestatole dal pubblico ministero che agli operanti della stazione dei Carabinieri di San Cristoforo a Milano, addi' 25 giugno 2008, aveva dichiarato di temere per la propria incolumita', ragione per la quale non aveva mai formalizzato alcuna denunzia per gli episodi antecedenti quello del 13 agosto 2007, per cui si procede, ha risposto che in tale occasione aveva detto il falso (p. 34 s. delle trascrizioni). Per vero, dalla lettura delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari dalla C., in tutte le occasioni piu' sopra menzionate, acquisite siccome oggetto di contestazione da parte del pubblico ministero, si apprende che in ogni caso in cui ella aveva deciso di rivolgersi alle Forze dell'ordine, l'imputato la picchio' e la minaccio': addirittura, nella parte finale del processo verbale di sommarie informazioni rese, come detto, dinanzi agli operanti della stazione dei Carabinieri di San Cristoforo a Milano, leggesi che gia' in precedenza altra querela ella aveva sporto nei confronti dell'imputato, di poi pero' rimettendola, a seguito delle minacce di morte che quegli, venutone a conoscenza, le aveva rivolto. Del resto, la stessa ricostruzione dell'episodio del 13 agosto 2007, giusta le sommarie informazioni rese agli operanti dell'aliquota di Polizia giudiziaria dei Carabinieri di Biella, rende conto di un rinnovato atteggiamento di violenza dell'imputato proprio al fine di impedirle di telefonare alle Forze dell'ordine: atteggiamento rispetto al quale, tuttavia, la C. si e' limitata laconicamente a dire in dibattimento che quanto in allora riferito non corrisponde a verita' (p. 32 delle trascrizioni). A fronte di quanto detto sin qui, ritiene il Tribunale che sia rilevante e non manifestamente infondata la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 500 comma 2 c.p.p. per violazione dell'art. 111, comma 5 Cost. nella parte in cui non consente che le dichiarazioni lette per la contestazione possano essere valutate, oltreche' ai fini del giudizio di credibilita' del teste, altresi' ai fini della prova della violenza o minaccia, ovvero anche, uscendo dalla prospettiva del caso che ne occupa, dell'offerta o della promessa di denaro od altra utilita', che, a termini del comma 4 del medesimo articolo, determinerebbe l'acquisizione al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero. Sulla rilevanza della questione non v'e' molto da dire. La dichiarazione di illegittimita' costituzionale della norma impugnata consentirebbe di acquisire al fascicolo del dibattimento quella parte delle dichiarazioni della C. che riferiscono di violenze o minacce perpetrate dall'imputato nei suoi confronti quante volte ella manifesto' l'intento di denunziarlo o querelarlo ovvero effettivamente lo denunzio' o lo querelo'. Dette dichiarazioni sarebbero utilizzabili e valutabili, non solo per saggiare la credibilita' della C. in rapporto alla versione fornita in dibattimento, ma tout court per fondare il libero convincimento del Giudice circa la sottoposizione della medesima a violenze o minacce. Sia consentito soltanto di osservare che da cio' non discenderebbe pianamente ed immediatamente l'utilizzabilita' e la valutabilita' dell'intero corpus delle dichiarazioni rese dal teste nella fase delle indagini preliminari, perche' tanto presupporrebbe che a priori il Giudice, giust'appunto nell'esercizio del suo libero convincimento, reputasse integrato il requisito degli «elementi concreti», in rapporto ad un eterocondizionamento del teste, che, a termini dell'art. 500 comma 4 c.p.p., funge da presupposto per l'acquisizione di detto corpus al fascicolo del dibattimento. Nondimeno, allo stato attuale del quadro normativo, poiche' le dichiarazioni lette per la contestazione possono essere utilizzate e valutate ai soli fini del giudizio di credibilita' del teste, l'emersione di episodi di violenze o minacce cui quest'ultimo sia stato sottoposto siccome esplicitati durante le indagini, ben puo' indurre a predicare di non credibilita' il teste medesimo, ma giammai puo' rilevare ex se quale argomento che, da solo od insieme ad altri, consenta al Giudice di apprezzare l'effettiva verificazione di tali episodi e di poi l'effettiva forza intimidatrice dagli stessi spiegata. Le superiori battute gia' introducono al tema della non manifesta infondatezza, che, quantomeno a sommesso avviso del Tribunale, permea la questione. Non ignora il Tribunale l'ormai costante insegnamento di codesta eccellentissima Corte secondo cui l'opzione legislativa di rendere il dibattimento impermeabile agli atti lato sensu istruttori compiuti nella fase delle indagini, lungi dall'essere irragionevole, risponde invece all'architettura del rinnovato processo penale secondo un impianto accusatorio, il quale postula per definizione la formazione della prova in linea di massima nel contraddittorio delle parti dinanzi ad un Giudice terzo. Invero l'avviso espresso originariamente nell'ordinanza n. 36 del 14 febbraio 2002, che, innovando rispetto alla necessita' di assicurare garanzia di attuazione al principio di non dispersione dei mezzi di prova (enucleato, in un diverso contesto, dalla sentenza n. 255 del 18 maggio 1992), reputa «del tutto coerente [con il nuovo assetto costituzionale] la previsione di istituti che mirino a preservare la fase del dibattimento - nella quale assumono valore paradigmatico i principi della oralita' e del contraddittorio - da contaminazioni probatorie fondate su atti unilateralmente raccolti nel corso delle indagini preliminari», con la conseguenza a termini della quale perfettamente legittima appare «l'esigenza di impedire che l'istituto delle contestazioni - proprio perche' configurato quale veicolo tecnico di utilizzazione processuale di dichiarazioni raccolte prima e al di fuori del contraddittorio - si atteggi alla stregua di meccanismo di acquisizione illimitato ed incondizionato di quelle dichiarazioni», trovasi sempre invocato e financo riprodotto nelle ordinanze successive, sino all'ultima, ossia la n. 137 del 24 marzo 2005, la quale, nel pronunziare circa la dedotta questione di illegittimita' costituzionale della disposizione pure odiernamente impugnata per il caso in cui il teste liberamente scelga di deporre il falso, ha chiarito come «l'art. 111, quinto comma, Cost., nel prefigurare una deroga al principio della formazione della prova in contraddittorio "per effetto di provata condotta illecita'', abbia inteso riferirsi alle sole "condotte illecite'' poste in essere «sul» dichiarante (quali la violenza, la minaccia o la subornazione) e non anche a quelle realizzate «dal» dichiarante stesso in occasione dell'esame in contraddittorio (quale, principalmente, la falsa testimonianza): e cio' alla luce sia della ratio del precetto costituzionale, che del suo necessario coordinamento con la previsione del secondo periodo del quarto comma del medesimo art. 111, che immediatamente lo precede». Ritiene nondimeno il Tribunale che detto insegnamento non possa trovare applicazione qualora il recupero del materiale lato sensu istruttorio raccolto nella fase delle indagini sia finalizzato a far entrare nel dibattimento la rappresentazione delle condizioni comprovanti la coartazione o l'induzione ab extrinseco del teste a non rispondere o a rispondere falsamente alle domande. Opinare diversamente significherebbe legittimare un meccanismo che ci si permette di definire cortocircuitante: le dichiarazioni lette per la contestazione dispiegano infatti piena valenza per fondare un giudizio di non credibilita' del teste, si badi, non in relazione alla negazione dei (o al silenzio circa i) fatti oggetto dell'imputazione, ma all'affermazione di non essere vessato da violenze o minacce o di non essere indotto da promessa di denaro od altra utilita' a tacere o mentire; tuttavia non consentono di contribuire alla formazione del libero convincimento del Giudice circa l'effettiva sussistenza della coartazione od induzione ab extrinseco. D'altronde, un teste coartato od indotto a tacere o a mentire, giammai conferma in dibattimento di essere sottoposto a siffatta coartazione od induzione, giacche', qualora cio' faccia, per cio' solo svanirebbero gli effetti e della coartazione e dell'induzione, con il conseguente disvelamento della posizione del teste medesimo anche in relazione ai fatti su cui e' chiamato a deporre: invece e' proprio nei casi in cui la coartazione o l'induzione hanno successo che si apprezza la necessita' di recuperare le precedenti dichiarazioni del teste, al fine di illuminare circa l'effettiva sussistenza degli estremi o dell'una o dell'altra. Cio' tanto piu' in quanto, in difetto di elementi di valutazione della coartazione o dell'induzione ulteriori e diversi rispetto alle precedenti dichiarazioni del teste, che concretamente possono darsi ma anche non darsi, esattamente come nel caso di specie, giusta quel che accade con regolarita' laddove si proceda per reati originanti in un rapporto duale tra autore e vittima ed anzi unidirezionale dall'uno all'altra, impedire il riafforamento di siffatte dichiarazioni significa obnubilare il precetto dell'art. 111, quinto comma, Cost.: la rilevanza della «provata condotta illecita» viene pretermessa in radice, perche' viene aprioristicamente negata la possibilita' stessa di «provare» l'«illiceita'» della «condotta». Valga, a mo' di chiosa, sottolineare come l'illustrazione della questione nei termini teste' riassunti, ancorche' non pretenda di apparire esaustiva, offra quantomeno spunti di riflessione, suggeriti dalla particolarita' del caso sottoposto alla cognizione del Tribunale, mai scandagliati nelle ordinanze e sentenze rese da codesta eccellentissima Corte sull'argomento di che trattasi, per l'effetto anelando, non gia' a riproporre una semplice riedizione del principio di non dispersione dei mezzi di prova, quanto piuttosto a tratteggiare una rinnovata funzionalizzazione di detto principio all'esigenza di concretizzare l'attuazione dell'art. 111, quinto comma, Cost. laddove, stigmatizzado la «provata condotta illecita» come strumento di vulnerazione della genuinita' del contraddittorio, consente di aprire il dibattimento agli apporti informativi di formazione unilaterale.